La Ferita è un Dono: Il Ritiro – La Munnezza nel Cervello

Il Ritiro ha alcune caratteristiche peculiari.

Infatti:

  • come si riconosce qualcuno che vive in ritiro?
  • Come posso riconoscere se IO vivo in ritiro?
  • E che cosa posso farci in concreto?

 

Vittorio sa benissimo che lui vuole solo fuggire e andare in montagna. E crede che sia normale, che lo pensino tutti, ciascuno per se stesso.

 

Ma sa, ha un sentore, che non è solo passione. E’ proprio menefreghismo: degli altri non gliene frega niente. Ma proprio nulla in assoluto. Ama solo stare da solo o con i quattro appassionati di sport estremi, con cui si parla solo di cose concrete: Salite, parapendio, voli, esplosioni emotive, pericoli.

Vittorio rischia la vita così, rincorrendo l’adrenalina in ogni occasione, altrimenti non sente niente: né la fatica né le emozioni.

 

Sono innumerevoli le persone che arrivano a chiedere l’intervento di un esperto perché sentono di vivere una vita sempre di più nei soliti circoli viziosi, magari non così estrema, e più banalmente senza più slanci. Sentono di avere l’immondizia nel cervello. Munnezza però rende meglio l’idea.

 

E’ un altro dei capitoli che si apre in terapia:

il Ritiro si manifesta in 2 forme:

 

  1. Quale “rifiuto” coltivo, come pensiero di scarto, cioè qualcosa di sporco, di cui mi vergogno, inconfessato, che credo non si veda mai, mentre è lì visibilissimo e soprattutto percepibilissimo da tutti?
  2. Al contrario, che cosa c’è dentro di me di cui sono fermamente convinto che regge quel rifiuto, quel ritiro del punto 1)?  E che fa parte integrante del mio modo di essere? Che cosa in realtà –se raccontata all’esterno- è una convinzione senza senso alcuno?

 

Quando all’interno del setting di terapia, i clienti vengono per tirar fuori questo circolo vizioso di pensieri, il sollievo di poterlo esprimere, sciogliere ed essere compresi è enorme. Come è esteso il respiro con cui escono alla fine della seduta:

 

“Effettivamente, adesso che me lo fai vedere, sono pensieri non tanto ragionevoli, come mi sembrava fino ad un attimo fa…

E capisco adesso che qualcosa ci si può fare, ogni volta che sono preda di queste convinzioni che mi porto appresso da così tanto tempo…

E posso condividere il peso della solitudine di fronte a questi pensieri… m’impongono da una vita di dovermela cavare sempre e soltanto contando su me stesso”.

 

 

Alcuni segreti inconfessati che ci hanno fatto fremere sulla sedia, durante le terapie:

  • fosse per me, le tromberei tutte, ma proprio tutte, tutte… solo che so che è una follia, e che non sarebbe vero nella realtà. E’ il non farlo mai che alimenta questa immondizia
  • Gli uomini, si sa, sono fatti per tradire (detta da una donna)
  • Gli uomini si sa, sono fatti per non essere fedeli, è biologico (detta da un uomo)
  • Prima o poi arriverà un amore che mi realizzerà completamente, lo sento da sempre
  • Prima o poi scopriranno che sono un fallito
  • Ancora un po’ e scappo via e chi s’è visto s’è visto
  • Voglio solo farmi i fatti miei, sempre e soltanto quello
  • A me degli altri non me ne fotte proprio niente
  • Perché a me mai niente? Mai, mai, mai!?
  • Perché mi sento esclusa, lontana da ciò che voglio?
  • Perché mi scartano sempre?
  • Qualcosa ci sarà sicuro che non va dentro di me…
  • Perché non mi so tenere un amore?
  • Che cos’ho che non va? Perché lo sento da sempre?!
  • La verità è che io sono fallata, uno scarto di merda.

 

 

Queste –o altre- sono istanze molto presenti in ciascuno di noi.

Le abbiamo proprio tutti? Sì, in misura minore o maggiore. Sono tendenze caratteriali.

 

Quando occorre lavorarci su? Se lo chiedete a me, sempre. Dovrebbero essere insegnate a scuola. In modo da poter essere trattate e affrontate.

La cosa importante è spiegare che cosa sono, come farci i conti e così non viverle più come vergogne e segreti, ma come costitutivi dell’animo umano e sapere che cosa farci, che è lo scopo di questa vita.

Non lo credete anche voi? E’ tutto qui.

 

Quando occorre lavorarci su? Soprattutto quando non ci fanno star bene:

dipende dalla sensibilità di ciascuno e dall’intensità di questi disturbi, dispersioni di energie, e a volte, veri e propri piani di vita paralleli, alternativi, vizi conclamati, “derive” autentiche da una vita ufficiale, di facciata.

 

Il nostro IO si forma a 3-4 anni, insieme alle decisioni importanti sulla nostra vita.

Insieme a questo “io” noi cresciamo. Quindi è elementare, automatico e non rappresenta tutto noi stessi.

 

 

Il resoconto di una seduta del gruppo del mattino è particolarmente esplicativa di questo meccanismo che tutti accomuna.

La consegna è:

a) Pensiamo a cosa abbiamo portato qui questa mattina: che cosa ci preme condividere. Quale preoccupazione, oppure quale gioia, o obiettivo o speranza, o difficoltà.

b) Poi, a turno, ciascuno di noi esce dalla stanza ed immagina che entri qualcuno al proprio posto a parlar male proprio di sé. Inizia dall’immaginare i passi, l’ingresso, per scoprire poi chi è e che cosa dice.

c) Poi, di nuovo, ripete l’esperienza, immaginando però che al proprio posto entri qualcuno che invece parli bene. Di nuovo, vede prima i passi, la camminata, poi scopre chi è e che cosa dice.

d) Una volta che tutti hanno completato l’esercizio, ci si riunisce in gruppo e si condivide, facendo attenzione alla eventuale relazione tra gli obiettivi o le preoccupazioni su cui ci siamo concentrati all’inizio e queste voci interiori che parlano male e bene di noi.

 

L’esercitazione si svolge in questo modo:

Al termine Vittorio racconta che ha visto chiaramente proprio quella persona raccontare del suo segreto e della sua fuga.

Piera scoppia a ridere e racconta che anche lei si è sentita “beccata”: la sua necessità di avere una baita in montagna in cui rifugiarsi per sempre. E’ vero, è un pensiero incredibilmente falso, irreale. Eppure è lì da sempre.

Cecilia condivide la sua esigenza di dover assolvere prima a innumerevoli compiti economici e di senso del dovere, prima di poter fare ciò che finalmente desidera. Fa calcoli assurdi, ogni giorno. E se ne vergogna in modo incredibile. Condividerlo sente che può liberarla finalmente.

 

L’aspetto più evidente è che “la munnezza nel cervello” rende chiaro il lavoro di terapia che in realtà pochi conoscono:

  • vi pare niente poter condividere questi segreti?
  • Cambiare le immagini interiori, cercare di comportarsi in modo più soddisfacente per noi?
  • E contraddire pensieri a dir poco idioti e pieni di pregiudizi su se stessi e soprattutto intrisi di solitudine e fai da te?

Tanto più che la munnezza che “ci abita” è uno dei primi sintomi che sentiamo che qualcosa non quadra. Mettono in mostra contraddizioni, corto circuiti, ardori malcelati e stop improvvisi.

 

E volete mettere il paradosso della munnezza?

Mettiamo che una persona senta di essere fallata, uscita male dalla fabbrica, con qualche carenza atavica, personale, privata e che si riconferma ad ogni appuntamento importante.
Ecco, il paradosso è che questa sensazione è molto vera dentro di sé, e allo stesso tempo molto falsa.

 

E ci si lavora come qualsiasi paradosso che si incontra in terapia.

 

Partiamo da uno dei due poli: è molto vero. E sarà sempre così. Si esagera la fallatura. E’ il cammino di Accettazione.

 

Es. concreto. Nel corso della seduta lavoriamo su Vittorio:

“Sì… avrò sempre questa sensazione, sarà sempre così, perché è un ricordo indissolubile della mia infanzia. Io tenderò sempre a cercare di annullarmi nella ricerca inutile di una ragazza, che però non troverò mai come la voglio, come me la immagino”.

 

Quindi, in terapia, sappiamo che non è così, che è solo un’atmosfera personale e familiare. Ma ci sarà sempre e possiamo conviverci, con tutta la serietà e sensazione di perdita vera, triste. Ma soprattutto, prendendoci in giro, perché mettiamo in luce l’assurdità della situazione che alimentiamo da soli (!):

“io mi sentirò sempre un po’ così. E l’accetto, ci entro e soprattutto ci sto a contatto molto più di prima e senza scappare più. E così vedo quanto sono assurdo!”. 

 

Lentamente, ciò spalancherà mondi completamente diversi e cambiamenti davvero radicali.

Ciò perché, poi, col tempo, si prende l’altro polo del paradosso, senza negare il primo.

Piera: “Nonostante io mi senta sbagliata e mi ci sentirò sempre, cosa posso fare? Se mi sentirò sempre così, e non troverò mai un uomo, la famiglia, i figli eccetera eccetera, cosa posso farci? E innanzitutto, come posso riorientare la mia vita?”

E qui si scatena un mondo. Magari, se così sarà  sempre, la smetto di rovinarmi la vita. Ci sto a contatto, certo, ma voglio e posso stare a contatto anche con la parte che è stufa di cercare di sopravvivere.

E allora mi viene voglia di fare quello che prima avrei fatto solo “quando” avessi trovato l’amore.

  • Viaggiare,
  • Realizzarmi di più sul lavoro,
  • Cercare di non fare più una vita da sopravvissuta.

E piano piano divento finalmente me stessa, una persona matura, triste, allegra, gioiosa, impaurita e arrabbiata. Non più ritirata. 

Come la natura mi ha creato davvero”.

 

 

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