La Metafora del Tennista

Se fossi un po’ più gay di quello che sono,
mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe.

Giannni Clerici, lo Scriba

 

 

 

Non c’è niente a cui arrivare.

Questo mi ha insegnato nei decenni la metafora del tennista.

La storia è presto detta.

Un ragazzo, all’epoca in cui facevo il militare, era un tennista. Discreto semi-professionista, classificato, 2^ o 3^ categoria. E a quell’età, 20-21 anni, era appena diventato maestro di tennis.

Non lo conoscevo bene. Avevamo passato solo 40 giorni insieme nel Centro Addestramento Reclute, in una camera da 3 letti a castello, in 6, tutti provenienti dalla nostra città natale. In verità giorni splendidi e spensierati, giovani, senza alcun problema di quelli soliti della naja.

Né poi lo rividi in seguito, se non saltuariamente, incrociandolo negli anni.

Mi trasferii due volte di città, cambiai lavoro in tutto 6 volte ma forse molte più volte attitudini, idea, immagine di me, mentre costruivo la mia identità. Dovrei pensarci a quante volte ho ribaltato la mia vita, i miei amori. Sicuramente con la sensazione-illusione di onestà nel mutare anima e l’auspicio di evolverla. Ma mai, per molto tempo, avvicinandomi alle cose della vita. Bensì girandoci intorno. E’ questo il punto del tennista.

Nel frattempo avevo cambiato due università, mi ero laureato e specializzato due volte dopo la laurea. E non so quanti corsi ho frequentato e quante vite masticato prima di sentirne il sapore.

E quando chiedevo di lui ad uno dei 6 della camerata, rientrando nella casa di famiglia in riva al mare, mi diceva che era ancora ovviamente maestro di tennis e quello era ciò che gli dava da vivere, con soddisfazione e più che dignitosamente. E da quando aveva probabilmente diciott’anni.

Perché io non ho scelto una vita così? Questa era la domanda delle domande che continuavo a pormi.

Che cosa stai cercando in realtà? Questa smania dell’altrove, e del senso della vita da trovare, sei sicuro sia una smania di verità?

 

Ne abbiamo appena parlato nell’Uccisione del Buddha, esempio più alto e filosofico di ragionamento e di pratica di benessere.

Ma che è appunto da ammazzare se ti porta lontano e alla deriva da te.

Questa del tennis è invece una metafora molto più privata e personale, come del resto accade: ciascuno ha la propria storia con cui condire il cammino.

Questa convinzione che la mia vita non è qua, ma è in un là senza qualità visibili e identificabili, è una profondità o bugia, verità o penitenza?

Chi non se l’è mai chiesto?

Ma è come risponderai la questione cruciale.

E fu quando incontrai la mia ferita in terapia: non sentirmi sostenuto, visto, e quindi avere paura di non farcela, e poi in seguito: quando iniziai ad elaborare le mie terapie, il metodo della trasformazione del carattere, ed incontrai l’accettazione, mi fu chiaro che cosa mi ricordasse quel suo esempio.

Il vivere senza doversi sempre sbattere e fare fatica. Che è diverso dal non avere ambizione e interessi e scopi altissimi, come io adolescente rivendicavo.

Per cui, come scritto nell’incipit, la metafora del tennista è davvero per me l’esempio dell’accettazione incondizionata: non c’è niente a cui arrivare.

Ogni mattina che il cielo manda in terra, c’è solo la soddisfazione del gesto. Anche se da pallettaro. Il mio conoscente non aveva il fisico da attaccante a rete. Anzi proprio per questo, la metafora del tennista mi ha sempre accompagnato. Non mescolare mai più ciò che si fa con l’aspettativa salvifica, nevrotica, interiore e proiettiva che accada qualcosa che in cuor mio so già da decenni che non arriverà, ma non riesco ad accettare come sentenza.

 

Non c’entra, mi dico adesso. Sbattiti, mi dicevo prima. Ora mi bado. Senza andare nell’ansia che ogni cosa mi metta alla prova.

Rimandare la palla è rimandare la palla.

Senza far entrare mai la palla dentro. Non c’entra.

Né vedendo la palla per quello che non è. La palla è una palla. Il piacere è corporeo e concreto e a volte non c’è.

E va bene anche quando c’è immediatamente. A volte magari arriva dopo. Aspetta. Stai. Tu vai bene. Ormai è tanto che me lo dico. A prescindere. Tu vai bene a prescindere.

Soprattutto se non lo senti.

Te lo hanno lavato via il valore.

Ma non è vero mai in realtà.

Ti hanno convinto che quando lo vedi non lo vedi. In un gioco di specchi. The prestige.

E’ così. Mentre io, al contrario, ho cambiato palle -e avventura- ogni decennio per non so quanti lustri dall’epoca del militare e sempre proiettato le sfide alla mia autostima, al mio realizzarmi, e poi ri-realizzarmi, ri-cambiare, re-iniziare di nuovo, cercando qualcosa che -come la moltitudine delle persone con cui sono entrato in contatto- non avrei mai potuto trovare.

Averlo capito è la metafora del tennista.

Vuoi stare anche solo un cazzo di minuto sulla palla, senza divagare?

Quante volte me lo sono detto.

Voi no?

 

Una volta, negli anni ‘80, ho letto che Mats Wilander -pallettaro diventato anche numero 1 al mondo- ha detto una volta: “in ogni partita, non mi interessa se vincerò o perderò, ma quante ore dovrò resistere sotto il sole, prima di saperlo”. Ed è una frase che chissà come mai mi ripeto da decenni. Adesso so perché me lo dico.

Era il fratello povero di Bjorn Borg. Ed è arrivato agli stessi risultati (quasi, ovviamente). Mentre lui, Bjorn, stando al film su di lui e MacEnroe, ha probabilmente fatto come noi poveri, si è cercato per una vita. Sì è ritirato a 26 anni, ma la sensazione è che sia invecchiato senza trovarsi. E così Boris Becker, altro esempio fulgido e sciatto insieme. Ma non certo Sa Majesté Roger Federer, nato esatto, da buon creatore di orologi, che mi ricorderà sempre il mio amico Antonello, mai morto davvero, perché “un altro passo” e “come diavolo fa”. Ma ti insegnano le avversità e le ferite, e s’impara nel peggio, di solito, mai nel meglio. Nei rivoli di vento, nelle pause. Lì sono le risposte. Ci si illumina così, asciugandosi il sudore, tra uno scambio e l’altro.

Il mio amico tennista, ho saputo decenni dopo, è andato ad aprire un centro sportivo in America e cosa sarà stato della sua vita non lo saprò mai.

Apperò, mi sono detto quando l’ho saputo: evvai, una botta di vita.

Perché, tu chi sei? Cosa credi di aver realizzato, tu? E soprattutto, che importanza ha?

Eh, ha importanza, mi rispondevo.

Perché lui nel tempo ha rappresentato per me una metafora costitutiva.

Non cercare mai ciò che non è essenziale. Non ti può dare quel che promette e non mantiene mai.

Soprattutto da quando, negli ultimi 20 anni,  ho ri-scoperto il corpo. Che prima non conoscevo come via maestra alla conoscenza di sé. Per me era solo sport. Ma da allora, certo che sì che tutte queste riflessioni si sono sustanziate. Confermandosi.

E questo mi fa pensare alle contorsioni dal dolore alla schiena di un altro tennista che questa ricerca del nulla l’ha trasmutata nell’auto scavo dei propri demoni, dell’ontologia della sua vita, missione e scopo primario, raccontandola ad uno scrittore coi fiocchi: Andrè Agassi. Che ha vissuto per il successo ottenuto senza alcun piacere e poi per il piacere senza alcun successo. Il quale piacere, da solo, lo ha ri-portato di nuovo ad essere numero 1 al mondo, all’amore puro, ottenuti solo per far del bene agli altri. Open. E’ il titolo, non a caso, della sua opera. Ascesa e caduta. E poi caduta ancora e risalita esponenziale quando non vuoi più niente. Totalmente. Rimanendo aperti.

La metafora essenziale. L’onda perfetta. The Perfect Storm.

E così, queste ben più misere ascese e ricadute ci hanno portati a noi popolo non eletto per definizione, a capire che non conta il progetto, conta il gesto.

Togli la cera, metti la cera.

E senza perdere mai la progressione del game della giornata, del senso del set della settimana e della partita della stagione, tutt’al più e niente di più.

Solo questa attenzione: da qui a lì, da questo scambio preciso a questo gioco, per sentire come conseguenza la realizzazione del proprio posto nel mondo, il proprio onesto scopo primario.

E questa seconda parte della metafora, l’ho aggiunta io, miseramente io, come tutti, alla mia esistenza, alla mia vita, al mio amore, alla mia realizzazione di mediocre figlio di puttana.

Ogni tanto, tuttavia, pensavo, forse una volta ogni 10 anni, ma lo pensavo, che in mezzo a tutte le mie trasformazioni, qualcuno continuava a rimandare la palla dall’altra parte, nello stesso campo di terra rossa dicendo, da decenni: non così basso, più su, di lato, metti più forza, bene così.

Semplicemente. Costantemente. E in qualche modo mi aiutava quel pensiero.

A dirmi palla sei e palla ritornerai.

Come vivi e cosa fai non contano.

Conta come cazzo stai nelle cose.

 

 

 

Leggi l’articolo correlato: L’Uccisione del Buddha.

One thought on “La Metafora del Tennista

  1. Chapeau Marco, semplicemente per il cuore che metti in questi scritti. E si sente, al di la delle cose che dici, si sente!

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