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Lasciare andare è l’accettazione.
E l’accettazione è lasciar andare.
Col tempo scopri che è una legge anche questa. Inossidabile. Cromata.
Non c’è mai una vera accettazione se non c’è un lasciare andare qualcosa che ha fatto parte della nostra vita così tanto da rovinarcela.
Quindi l’esperienza da attraversare per l’accettazione all’inizio, è la stessa del culmine del percorso che poi si compie con il Rito di Accettazione: qual è il tuo più grande obiettivo di una vita? Ecco. Non lo raggiungerai mai. Rinunciaci. Anche solo come simulazione. Come ti senti? Stai con questa sensazione ed elaborala.
E’ un bello spunto per partire nel lavoro su di sé, no? Bello potente, intendo. Una specie di direttissima per l’accettazione. Ne abbiamo parlato tanto.
Si diventa cacciatori di accettazioni: dov’è che sono ancora-ancora attaccato a qualcosa che non posso raggiungere mai?
M. ad esempio fugge ancora la paura della solitudine, mentre proprio la solitudine è il segnale che sta andando nella direzione giusta.
Guardiamolo nel dettaglio: in terapia, i partecipanti si segnano le rivelazioni che il loro inconscio fa uscire, altrimenti, dopo 10 minuti, le dimenticherebbero (che è ciò che l’inconscio vuole, che tornino lì nell’oscuro spazio animale). M. allora scrive: “Se mi avventuro nel profondo di ciò che mi piace davvero, mi sentirò sempre solo, solissimo, perché così mi sono sentito tutte le volte che non facevo ciò che faceva piacere a mia madre”.
Quindi solo è bello- conclude da sé.
Siamo fatti davvero della stessa materia dei sogni.
F. invece ha da sentire sempre e rivalutare il ricatto per staccarsi da una situazione ricattatoria famigliare importante. Quando sente il ricatto e che non può assolutamente fare ciò che le piacerebbe, allora quello è un buon segnale. Il segnale che deve proprio fare ciò che desidera. Pensate un po’. Che s’ha da fa’ pe’ campa’.
Questa è la frase che lei si porta a casa, da leggere e rileggere ad libitum… “è una vita che soffro il ricatto mortifero e totale che mia sorella non può vivere per far vivere me”.
Allora, praticamente, F. non ha mai vissuto davvero, e tende a non vivere mai fino in fondo, perché più lei vive e più si sente in colpa per la sorella che non può vivere come F.
E cosa succede nella realtà? Che più lei si sforza di vivere sul serio, in profondità, e si emancipa, più la sorella peggiora e sta male. Come fossero gemelle inverse.
Che potenza ha l’esistenza, non è così?
Allora, arriva la rivelazione: F. non vive realmente e non vive allo scopo di punirsi.
Questo è il pezzo ulteriore preziosissimo da capire.
Poiché, quando finalmente un po’ vive, cosa accade? Che la sorella la punisce punendo se stessa, stando peggio, infortunandosi, iniziandola a chiamare ripetutamente in preda ad un’ansia ingestibile. Al ché, F. non può più continuare a progredire. Peggiora non solo nello stato d’animo, ma sente che le si chiudono le prospettive: il lavoro non diventa mai sicuro, i suoi colloqui di lavoro non vanno mai in porto, la sua situazione generale è sempre precaria. E tutto ritorna nella normalità (normalità!?).
Ora sa però che è lei che la cerca, la vuole e la desidera, questa chiusura, per punirsi, e non è vero per niente che lei cerca con tutta se stessa di uscirne. E’ una finta.
Quando c’è qualcosa di così forte contro noi stessi che ci accade, è perché noi lo vogliamo per punirci. È un’altra verità profonda, che ci libera poi totalmente. Per 1 solo motivo. Perché è vera. E’ così. Possiamo smettere di inocularci da soli il veleno di cui ci lamentiamo.
G. ha una storia che gira sempre attorno alle preoccupazioni per la sussistenza. Mancanza, mancanza, mancanza è il suo refrein. Orfano da bambino, questa è stata la sua realtà. Ma… è nella condanna a questa situazione che si auto infligge, la verità più profonda attraverso cui uscirne.
“Solo se sono estremamente preoccupato e sull’orlo ogni giorno della catastrofe totale e del fallimento, posso punirmi per non sentirmi mai all’altezza”.
“Solo se io me la meno in modo impietoso e molto più che eccessivo sul fatto che io non valgo nel modo più assoluto nella vita e nelle relazioni, e vivo malissimo, non dormo e non godo e non sto mai sereno, espierò in modo adeguato le mie colpe infinite, a costo di morirne di stenti, ma comunque avrò pagato la condanna che sento dovuta perché è sempre soltanto tutta colpa mia, infinita, perché non riesco mai a farcela, perché sono la persona peggiore del mondo.
E da qui la folgorazione finale:
E perché tutto questo? Perché sono il peggiore del mondo? Perché io desidero. Non ho mai smesso di desiderare. Ed era proibito da bambino, a casa nostra, perché non c’era niente e non potevamo permetterci niente”.
E’ un’affermazione ben più drammatica quella che lo agita e di cui ha da essere consapevole semplicemente per uscirne una volta per tutte. Ciò perché fa finta (inconsciamente) di occuparsi di preoccupazioni quotidiane ventennali e onnipresenti, mentre la realtà è che va cercando ogni momento qualcosa per dimostrarsi che lui merita solo di star male, con accanimento, sadismo e forza primordiale contro se stesso, solo perché lui desidera.
Visto questo, può finalmente star bene in modo stabile. Oooohhh.
Pensate al suo sollievo e alla leggerezza riacquistata. Ci credereste? Eppure accade davvero.
Anzi, quando accade che stiamo bene stabilmente è sempre perché abbiamo capito dove e come ci puniamo, condanniamo, torturiamo da soli per la convinzione e il senso di colpa di essere noi dei mentecatti totali.
Siamo fatti della stessa materia degli incubi, a volte.
Il senso di colpa ci può portare letteralmente a morire. Soprattutto per malattie gravi ripetute e successive. E noi lo sentiamo. Sempre. Nei reparti d’ospedale con pazienti gravi dovremmo andare a cercare con un test la presenza di sensi di colpa e di autopunizioni. Ne troveremmo a tonnellate. E i parenti intorno al malato se lo chiedono ogni volta. Perché continua a riammalarsi? Sentono benissimo che è per qualcosa di inesistente e punitivo. E che invece il malato considera solo lui, dentro di sé, nel profondo, molto vero, nella malattia: la devo pagare, oppure mi devo tirare fuori da questa vita vergognosa che faccio, morendo di malattia grave, oppure ancora non posso più sopportare questa recita tremenda con mia moglie, e così via.
Le persone di cui vi parlo in queste note sono tutte meravigliose. E si conoscono tra loro perché sono in terapia di gruppo. E possono testimoniare che è vero. E sono costrette ad accettare che è vero: se gli altri sono così meravigliosi, forse lo sono anch’io. Forse?
M. ha nel sentirsi schiacciata il suo lasciar andare. Ma potete immaginare com’è contro-intuitivo dover lasciare andare e accettare che ogni cosa o persona che entra in contatto con noi per prima cosa ci schiaccia e quindi ci porta insofferenza? Eppure, la persona che lo sta accettando si sente liberata:
“Qualsiasi legame con la realtà troppo stretto mi riporta all’oppressione dei miei genitori che ho sentito su di me”.
Non potrebbe essere altrimenti. Come potrebbe?
I suoi genitori sono persone meravigliose. E la storia della sua famiglia è presto detta e rappresenta la storia d’Italia degli ultimi duecento anni. Di estrazione modesta, i genitori, al pari dei nonni e dei nonni dei nonni, si sposano presto, dopo essere andati a lavorare a 13 anni. La persona di cui sopra, che sente oppressione, la protagonista di questa piccola storia, nasce quando la madre ha 18 anni, in maternità dalla fabbrica, mentre il padre è muratore. Quando la bambina cresce, viene imbevuta d’amore totale ma anche della considerazione della vita come fatica e accettazione della durezza e dell’accontentarsi in secula seculorum.
E’ qui che nasce la sensazione, dentro di lei, rafforzata poi da adolescente, che lei non può essere se stessa e non può esserlo a costo di morirne. Non di meno. “Se sono me stessa, con le passioni che ho, muoio. Destinata al fallimento totale. Non posso essere libera, mai, né fare scuole o corsi per le mie passioni (ovvio)”. E se lei continua a sentirle, perché lei nel profondo continua a sentirle, le sue passioni (come potrebbe non sentirle?), è la dimostrazione matematica che lei è sbagliata. Perché HA delle passioni. Pertanto: io HO dentro di me qualcosa di sbagliato. Io lo eradico. Non ci posso riuscire. “Lo vedi? Anche in questo sei fallita”. E giù una depressione potente ma totalmente fittizia, auto prodotta.
Ecco un’educazione normale e colma d’amore che provoca comunque un’aberrazione e una bugia colossali. Lei pertanto farà scuole che non le piacciono e non la rappresentano e a cui i suoi genitori in qualche modo la confineranno, con amore, certo, perché nella povertà e nel bisogno non si può seguire se stessi per forza di cose. Ma in special modo, lei resterà per decenni in un lavoro che non le piace e in una relazione che non le piace, non soltanto perché così si fa e chi sono io per sconvolgere questa realtà in cui siamo tutti cresciuti nelle ultime centinaia d’anni, ma soprattutto per punirsi, perché lei osa ancora coltivare di nascosto e con sacrificio, le sue passioni, a cui, pur provandoci con tutta se stessa e con dolori enormi, non riesce a rinunciare. Forse allora adesso può capire e uscire dal morire dentro, spezzarsi, annullarsi, guardare ad ogni pausa caffè agli altri, ai cinici -‘che poi comandano il mondo’. Questa è la condanna e l’unica possibilità per lei. Stare in carcere. Dorato. Aziendale. Con i benefit. Ma comunque in carcere.
A farequalcosachenonmenepuòfregaredimeno. E a stare con un fidanzato che non la calcola, non la considera, e che si occupa -lui sì, delle proprie passioni. Fidanzato che lei non può lasciare al pari del lavoro, se no lei, sempre lei è solo lei è sbagliata.
Questa constatazione finalmente la sconvolge. La punizione estrema e il sacrificio vitale completo della sua vita che s’immola. Non è vero che non cambia vita e partner e lavoro perché non le è possibile. O perché non ce la fa. Non cambia per punirsi, per pagare un prezzo enorme, fino alla morte. Dell’anima. Con sadismo verso se stessa. Perché lei vuol fare la diversa e coltiva nel profondo le passioni e una vita appassionata.
E qui qualcosa si scioglie finalmente. E lei torna alla verità e alle infinite possibilità su di sé.
E vissero finalmente sgarrupate e contente.
Allora? Allora la Struttura! La Struttura!
Il cambio di struttura sancisce davvero la vita nuova.
Se non scegli un equilibrio diverso dentro di te e una verità pura e pulita, resterai sempre nella stessa struttura squilibrata e mancante di qualche pezzo in cui siamo cresciuti tanto tempo fa. Implacabile e glaciale, ma così. A cui tu stesso ti condanni. Incredibile no? Eppure verissimo.
Vai alla continuazione di questo articolo: Qualcosa Devo Lasciar Andare Sempre?
Ora. Qualcosa devo lasciar andare sempre? Oppure ad un certo punto si smette?
Sentite che è sbagliata la domanda? Perché dovrei voler smettere un meccanismo che fa sentire l’abbondanza? Sentite come la domanda sia ancora imbevuta di rinuncia e rassegnazione e speranza flebile e proibita di qualcosa?
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