Le 3 Fasi da Chiusi Dentro ad Aperti Fuori


Ho pensato a quanto spiacevole sia essere chiusi fuori,
e ho pensato a quanto sia peggio essere chiusi dentro.

Virginia Woolf

 

 


Ultime Notizie dal fronte della Clausura.

Nei diversi gruppi di terapia di questo periodo, virtuali per forza di cose, sono emerse 3 costanti di questa crisi, 3 fasi, simili per molte persone.

 

E’ utile allora riassumerle e considerarle nel presente impegnativo e nel prossimo futuro che ci attende.

  1. Ritornare a Sentire Se Stessi (Chiusi Dentro)

La prima fase è la sensazione di sollievo nel “non sentirsi più costretti”.

Ad andare a lavorare. A fare un lavoro su di sé. A portare avanti le consuete fatiche. A relazionarsi con chiunque senza poter scegliere chi ci piace.

E via via, a ciascuno il suo: senza traffico, senza orari, senza incombenze. Ritornare a sentire se stessi e le proprie voglie del momento. Come prima e quasi unica cosa della giornata. Certo, non per tutti, con i figli  in casa, ad esempio, non è facile.

Ma per molti, c’è sempre una sensazione che chiameremmo di “scampato pericolo”. Non sentirsi più obbligati a…  e quindi in una meritata pausa. Chiusi dentro, ci sentiamo come protetti, in qualche modo al sicuro.

 

Solo che, nel corso delle settimane di clausura, a seconda dei libri da leggere, delle ricette da elaborare, dei lavori di ristrutturazione da fare, quindi, terminati i “recuperi” sui piaceri che non avevamo tempo di goderci…

…la ripetitività delle giornate, le privazioni del non poter uscire e la forzata convivenza, o lo star soli h24, ci hanno riportato abbastanza presto, e comunque ormai in un mese, ci stiamo arrivando quasi tutti, alla sensazione di dover riprendere il filo della progressione.

Dice Nietsche: “Il vostro cattivo amore per voi stessi fa della solitudine una prigione per voi.“ —  Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra

E ci diciamo noi: se non approfittiamo adesso per questa telefonata, o questa iscrizione a quel corso… per interrompere il vizio, smetterla con lo stramangiare o chissà cos’altro… proprio ora che avremmo il tempo e la disposizione d’animo giusta… poi, quando saremo di nuovo nella bolgia, non avremo più scuse.

 

La prima domanda che di solito fa capolino in un incontro di terapia, o tra un libro e un tg, è più o meno questa:

“Ma come mai sto così bene in questa clausura? Va bene il sollievo, il riposo e il traffico… ma qui mi sembra che ci sia un mandare proprio tutto e tutti a quel paese. Come mai?”.

 

Qui di seguito, due delle condivisioni più frequenti:

“Me ne sono accorto una mattina di sole. Io che scendo stra-carico di immondizia e mi vedo. Più stai bene proprio perché inveisci sulla vita di emme di prima… e più saranno dolori nel momento di tornare! E mi sono quasi bloccato fisicamente. Non va bene. Non va per niente bene, allora. Ma devo essere schiavo di questi mezzucci?! Basta per favore!”.

“Se mi fa piacere non stare a contatto con gli altri, visto che le relazioni in realtà mi hanno sempre messo in difficoltà, ora comunque mi inizia a pesare -come sempre nella vita (!)- questa solitudine. Allora mi sento di nuovo il solito pirla, che è felice di giocare da solo ma in realtà si sente sempre più isolato, mancante e disperato”.

 

In sostanza, c’è sempre un lavoro da fare su di noi. Che stavamo facendo. E va bene la pausa, il sollievo e le ferie arretrate. Ma ora, se non riprendiamo il filo, la prolungata clausura, invece che un’occasione, diventa un ri-sprofondare di nuovo nei nostri soliti problemi.

E adesso, che li conosciamo, i problemi, sarebbe ancora più da stupidi.

Ad esempio, prosegue sempre la persona di prima:

“Allora inizia a chiamare qualcuno!- mi dico. Ma posso farlo in due modi. E sempre gli stessi due modi sono… li abbiamo visti in analisi più volte: il primo è senza avere molto da dire. E chiamare quelle persone chiaramente perché mi sento solo. E quindi telefonate con imbarazzi e silenzi e ripetizioni di “Come stai? Bene, grazie. E tu? Bene, grazie. E tu? Scusa, me l’hai già detto….”.

Oppure, il secondo modo è: mi collego prima a me stesso. A ciò che questa clausura mi impone, alle mie opinioni profonde, ai miei punti di vista, alle mie miserie e alle domande su di me, sulla gestione della crisi dei diversi governi, qualsiasi cosa… e solo dopo questa sintonizzazione, chiamo!

Chiamo per confrontarmi con chiunque, anche con gli stessi della telefonata di cui sopra… anche con chi non ho niente da dire… e mi apro, mi rispecchio, chiedo un parere, un sentire diverso, una risonanza. E questo mi dà, devo dire, un’evoluzione che continua, a prescindere totalmente dall’emergenza virus”.

Ecco. Ad un certo punto, si apre per chiunque la seconda fase. Di ri-connessione. Del “dove eravamo rimasti?”. 

 

2. La Seconda Sveglia (Aperti Dentro)

Se infatti, la prima sveglia l’abbiamo svangata, e non suona più, la seconda, è interna, e ci fa svegliare da dentro.

Alcuni, avvezzi, l’hanno iniziata già una settimana dopo le restrizioni, questa fase, altri, più intossicati, hanno preso “un recule” più lungo, un respiro più necessario, ma anche poi con la necessità di recuperare più spazio e di perdere più chili dall’anima, se mi passate la metafora.

In ogni caso, questa fase di “rimettere la sveglia” arriva per tutti. Chi più e chi meno. Ma non perché chi prima senta questa esigenza abbia più problemi, bensì solo perché gli scatti più voglia e smartness per mettercisi a lavorare.

E’ questo il vantaggio della forzata clausura. Obbligarci a guardarci dentro, in tempi che invece ci stavano portando sempre più fuori, come ben indovina Bauman:

“L’introspezione è un’attività che sta scomparendo. Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato, invece di raccogliere i pensieri, controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro.“ —  Zygmunt Bauman, da “Intervista sull’identità”.

 

Arriva così che anche i buoni propositi tornano in auge.

Siamo dentro, ma almeno torniamo ad essere aperti.

 

Altre condivisioni sono allora del tipo:

“Se sono sollevata di non dovermi più sottomettere alle esigenze degli altri… allora mi sono detta: non la fai mica giusta! Devi far tesoro di questo sollievo. Posso non sentirmici più, costretta e sottomessa ai voleri e ai bisogni degli altri! Ma basta! Come ho fatto tutto questo periodo? E come posso fare a non sottomettermi più anche in futuro?! La domanda allora mi sposta”.

Precisamente: la domanda ci sposta. Questa è la sensazione della seconda fase.

Ci sposta fuori dalla clausura. A prescindere.

Come tutti i lavori su di sé, del resto.

La questione cardine, di questa seconda fase è:

“Che cosa mi costringe a vedere di me, la forzata clausura?”.

Altre risposte, di persone completamente diverse tra loro:

  • “Quanto mi lamento, direi. Sono davvero lamentosa, pesante, insopportabile”
  • “Vedere che non riesco a chiedere per me”.
  • “La mia fatica. Mi fa tutto fatica. Se prima era giustificata, adesso mi fa paura. Mi fa tutto fatica?! Persino le cose belle?!”
  • “Il procrastinare. Pur di non fare le cose, m’invento qualsiasi cosa”.

(Provate, ovviamente a porvi anche voi le domande qui riportate. Potreste avere piccole risposte illuminanti. Cosa vi costa? Avete tanto da fare? Ancora?).

 

3. E se fosse Sempre Così? (Aperti Fuori)

Ma la terza fase, quella che castiga tutti, arriva quando ci poniamo la domanda:

“Sì, va beh, ma concretamente…?

Che faccio?

Cosa vorrei potermi dire, al ritorno nella vita di prima?”.

Che cosa vorrei riuscire a portare nelle giornate future?

Che cosa so che mi fa bene pensare, elaborare?

Su che cosa posso concentrarmi oggi, che mi faccia svoltare la giornata?


Eh sì, è vero. Sono le stesse domande di prima della crisi. Non è cambiato niente.

Come posso difendere le mie conquiste
e indirizzare la mia vita e i miei interessi diversamente?

Ma cambia allora l’opportunità, visto che abbiamo più tempo e quasi nient’altro da fare.

Anche questa constatazione allora ci sposta! Perché ci mette fretta a cogliere l’occasione!

Una persona ha addirittura ipotizzato il peggio:

“E se restiamo così altri 3 mesi? Sto qui da sola a ballare la tarantella?! Senza una direzione, una progressione? Senza capo né coda? Ok, allora: da oggi si balla come se non dovesse cambiare più, questa situazione. E con lei, prendo per le corna me stessa e le mie paure. E vediamo chi la vince”.

La scoperta è che la questione è sempre la stessa, come prima del virus, perché noi sempre quelli siamo.

 

E solo se accetti che qualsiasi periodo possa durare una vita, trai l’insegnamento giusto per te.

 

Il senso generale, la verità, la rivelazione di questa stagione forzata, è che solo se -quando usciremo di nuovo— noi migliori saremo diventati… allora, anche questa prigione ha avuto il miglior senso che potesse avere. Altrimenti, è un’altra occasione persa.

 

La differenza di questa terza fase, è appunto che sentiamo di dover fare materialmente qualcosa per essere aperti, totalmente. Aperti e basta. Dentro o fuori non ha importanza. Vale a dire che il passaggio dall’avere capito, all’allenarci materialmente, può NON essere immediato. Anzi…

E possiamo ritornare in un attimo al sollievo e alla chiusura, dritti alla fase 1 e senza passare dal via.

E in una sola giornata, posso:

  1. tuffarmi nel mi chiudo e basta
  2. evolvermi al mi apro e basta
  3. fino al rifletto e decido e faccio materialmente quella telefonata o quella ricerca, lettura o acquisto, che mi fa bene e piacere e mi fa anticipare la ri-uscita nel mondo esterno, e tornare ad evolvere, a prescindere da qualsiasi crisi stiamo vivendo.

In una specie di fisarmonica.

La fisarmonica della clausura.

 

Anche perché, le scuse, in questa vita monastica, non è che abbondino, come prima, quando eravamo pieni di impegni e spostamenti.

Allora, le condivisioni nelle terapie virtuali si fanno finalmente diverse:

  • “Eh niente. Ho iniziato a fare gli esercizi. E sto incredibilmente meglio. E penso, credo, anzi: mi devo imporre, che non li smetterò più. Ci riuscirò?”.
  • Gli ho parlato chiaro. Mi sono scritta tutto. Gli ho detto, adesso, belli belli ci mettiamo qui e ce ne diciamo di ogni. Comincio io…”.
  • “Ho iniziato ad appendere post it ironici in casa, chiedendo chiaramente che i compiti venissero condivisi. Ma una volta avrei usato il sarcasmo. Adesso, li han guardati e hanno sorriso. Non tutti, certo. Adesso stiamo a vedere”.
  • “Non avere la testa tra le nuvole. Ogni giorno. Per il resto della mia vita. Questo devo fare. Questo mi sta dicendo il periodo. E basta”.
  • “ Anche ‘sto lavoro da casa. Non l’avrei mai detto. Ma non ci sto più dentro. Se al ritorno, fuori dai casini, non cambio lavoro, non seguo me stessa, io mi continuerò a spegnere”.
  • “Stare nelle cose. Qualsiasi esse siano. Sempre. Questo è il mio compito”.
  • “Io non voglio più vivere di obblighi. Soprattutto di occuparmi degli altri. Tanto loro se ne fregano. Sempre. E -di colpo!- mi sono sentita finalmente liberata!”.
  • “Ho fatto i conti con la vergogna. E’ stata durissima. Ma io sono la mia vergogna. E più mi vergogno ma dico tutto-tutto-tutto ciò che sento e più avverto che questa vergogna è schifosa, subdola, inesistente e irreale. Io vado bene vergognosa, senza vergogna. E’ un paradosso, ma non lo è per niente”. 


Ecco. Diciamo che abbiamo fatto tesoro di questa terza fase, dell’insegnamento insito in qualsiasi catastrofe, quando abbiamo colto questi due insegnamenti:

  1. Quando realizzi che più fai vedere la tua merda, più gli altri vedono la tua meraviglia.
  2. E quando ti rendi conto che più stai a contatto con questa merda e migliore sarai.

 

Dice il saggio:

“Si può paragonare la vita a un tessuto ricamato, di cui ognuno può vedere il lato esterno nella prima metà della sua esistenza, e il rovescio nella seconda: quest’ultimo non è così bello, ma più istruttivo, poiché lascia riconoscere la connessione dei fili.”

IRVIN D. YALOM

E ancora:

“La verità si raggiunge attraverso la sfiducia e lo scetticismo, non attraverso un infantile desiderio che le cose stiano in un certo modo.”

IRVIN D. YALOM

 

E alla fine, tra le lacrime, ci facciamo anche una sana risata, come ha detto giustamente qualcuno, dopo un bel pianto trasformativo:

“Virus? Quale virus? Qui ce n’è di lavoro da fare. Altro che virus”.

 

 

 

One thought on “Le 3 Fasi da Chiusi Dentro ad Aperti Fuori

  1. Il tuo modo di scrivere, chiaro, pulito, diretto fa riflettere ed arriva dritto al Cuore ❤!
    Non sarò mai grata abbastanza per averti incontrato… Ti voglio sinceramente bene

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