Leggerezza Profonda: Prendiamo Qualcuno

Prendiamo qualcuno che pensi di non valere niente.

Eccolo, sono io.

Buongiorno a tutti, Sono Metello, detto Mete, e sono 10.000 giorni che non posso esimermi dal bere.

Ma non bevo alcol.

Bevo alla fonte del non valere.

Mete. Un nome a metà. Un non-nome. Un meta-nome. Un nome ponte:

… da qualcosa che non vale niente, insignificante.
…a qualcosa che forse un giorno varrà…

…ma non succederà mai.

Non. N-o-n. Tre lettere che mi hanno sempre caratterizzato. Non posso. Non devo. Non valgo.

Questo qualcuno sa vagamente che tutto deriva dal rapporto con suo padre. Ma di fatto lui continua a pensare di non valere niente.

Niente vuol dire meno degli altri.

E fin qui.

 

Il fatto è che poi questa personcina si concentra sempre sul valore, sull’ansia di valere, di dimostrare.

Si confronta sempre su questo paragone:

  • gli altri cosa stanno sentendo di me?
  • Cosa penseranno?
  • E perché è così importante per me?
  • E come diavolo posso uscirne?
  • Che fare?!
  • Come fare?!

Incessantemente.

E’ uno stillicidio che mi uccide.

 

Ora: come se ne può uscire se non con la verità? Ogni giorno?

Se non smettendo totalmente di dimostrare di valere?

Io sentirò ogni giorno di non valere.

Anche se non sarà mai vero. 

Anche se mi dimostrerò e mi diranno sempre il contrario.

E allora lo assumo tutto i giorni. Come un soldatino. Sono molto bravo a fare il soldatino.

Solo che prima facevo un gioco assurdo, di spionaggio e contro-spionaggio:

mi battevo “a scoglio” contro le tempeste della mia famiglia… ma lo facevo usando il loro linguaggio e la critica che loro stessi sparavano verso di me…

Ottenendo solo contrapposizioni infinite.

Fuori, litigate furibonde.
Dentro, conflitti pazzeschi.

Senza contare che poi, molte volte, passavo a militare nella Stasi avversaria: sì è vero, sono io che sono da criticare, io non valgo niente, valgo così poco… sono proprio una cacchetta… scusate.

Mettevo in piedi una rappresentazione teatrale:

ogni mattina un parte prendeva il sopravvento sull’altra: la parte polemica contro la parte auto-critica, a seconda, vinceva,… e andava a lavorare… annullando l’altra…

…che poi ritornava fuori, quando meno te lo aspetti….

E così mattina dopo mattina.

 

E adesso, proprio come prima, ogni mattina, mi ripeto invece la sola, unica, verità:

è solo dentro di me questo film che non valgo.

 

Fiuuuuuuuu.

Ci devo solo stare.

Pensate a cosa si prova.

I primi giorni è come se qualcosa si depositasse. A terra.

Tristezza, abbattimento, sensazione di non avere via d’uscita.

La seconda settimana, ci accorgiamo -noi parti che componiamo Metello- che questa sensazione è quella che sentiamo da sempre. Che piangevamo da bambini.

E che -cercando di dimostrare di valere- provavamo a sconfiggere.

Senza mai riuscirci.

E questo esercizio di accettazione e ripetizione -e ripetizione ancora- quotidiana, costante, respirata…

…non valgo, sentirò sempre che non valgo, non importa la realtà….
tanto è un film in cui non valgo e non varrò mai…

… è un esercizio-ponte che svela la verità, da sempre dentro di me…

Mi ripeto: non è che non valgo. E’ solo che sentirò sempre di non valere.

E dove sta la minchia di differenza? Eh?!

Respira, mi ripeto. Aspetta.

Cosa aspetto se so che non arriva niente? Che senso ha?…

 

Poi ri-alziamo la testa. Riusciamo fuori di casa.

Ci sbattiamo fuori di casa.

Con un respiro più lungo, perché alzando la testa e sentendoci abbattuti a terra, ci sentiamo stranamente più lunghi… sorriso amaro: è vero, è una sensazione fisica di lunghezza, ampiezza, profondità. Certo, accompagnata da ‘sta tristezza infinita… bella sensazione del cavolo!

Purtuttavia, per caso, una mattina, si appalesa il risultato più significativo:

siamo costretti a guardare a cosa c’è nella nostra vita al di là del cercare di valere.

 

Ustia. E’ vero. E adesso? Come campo? Che senso ha andare a lavorare? Relazionarmi con gli altri?

Certo, è bene saperlo, che vivevo solo per quello.

Ma non è che scoprirlo mi liberi. Anzi… mi affligge come una malattia … mi prosciuga le energie…

 

Perché è vero: altre volte me ne sono accorto nei decenni scorsi. E mi sono detto: adesso basta. Non cercherò più niente, e soprattutto affanculo il valere. Basta!

Ma poi tornavo al punto di prima.

Forse ad un livello ancora peggiore: contrario a tutto e a tutti. Chiuso, irritato, ritirato, in difesa. Fino a farmi fregare e a ri-scoprirmi di nuovo che ero contento proprio perché rifiutavo di valere.

Se non è un paradosso questo…

Ero contento di valere almeno un pò, rifiutando di valere, opponendomi a questo sistema implacabile.

Mi rifiutavo di sforzarmi di valere e così mi battevo e mi sentivo che valevo di più, per trovare nella battaglia, nello star fuori dalla società, nella deriva… il mio valore (!).

E di volerlo dimostrare ancora e ancora.

L’abbigliamento allora era uno sventolare di bandiere…
Lasciare il lavoro un orgoglio da deficiente…
Farmi crescere i capelli un vezzo da coglioni.

Le abitudini invertite tra il giorno e la notte, un vanto da parassita.

 

Adesso invece, come faccio? Come posso mai farcela? L’impegno che ho preso è più profondo, esistenziale: sentirò sempre di non valere, come un difetto di fabbrica, senza redenzione.

E soprattutto: senza che questo sia vero o reale, o concreto. Solo una sensazione dentro di me….

Quindi, adesso con che speranza, e con quale entusiasmo, vado incontro a questa giornata, se mi sento depresso e privo di possibilità?

 

Posso solo lasciarmi depositare, goccia-dopo-goccia, come da un colino del té.

 

Allora ci guardiamo intorno.

E troviamo ben poco. Che Tristezza un’esistenza così…

Siamo costretti a vedere, perché ci siamo presi l’impegno:

cosa c’è nel mio modo di lavorare/non lavorare
oltre alla ricerca di valere e di doverlo dimostrare?

 

Mi sembra ci sia stato solo questo. E quindi tutto è da re-impostare.

Se non potrò mai valere, e lo accetto e me lo ripeto ogni giorno, per che cosa lavoro?

E come cambia la mia giornata, la settimana, la stagione?

E le ferie? Il denaro, Il meritare? Le relazioni al lavoro?

E’ come una rifondazione della mia vita.

 

Ah già, le relazioni!

Oddio: ho sempre cercato di valere! Con lei… ma certo: anche con lui!

E con quell’altra? Peggio di sempre. Sempre! Anche qui. Anche oggi.

Adesso questa consapevolezza mi sembra impietosa, mortificante. E senza speranza.

Addirittura, mi ricordo un paio di casi in cui ho scelto il partner o gli amici proprio considerando che… quella scelta mi dava lustro e quella persona era stimata… non perché mi ci sentissi bene o ne fossi innamorato.

Madonna. Decenni passati così.

 

Ma piano piano, nelle settimane seguenti, mi accorgo di un’altra sensazione strana, fisica, corporea: è come se spostassi di più l’aria intorno a me quando avanzo. E’ come se avanzassi davvero, laddove prima giravo in giro.

Mi porto tutto dietro, ad ogni passo.

Contengo qualcosa quando mi muovo.

Non attraverso più lo spazio in modo etereo, incolore.

La differenza tra verità e affanno.
E mi esprimo meglio, fregandomene molto di più.

Tanto sarà sempre più importante il parere degli altri che il mio pensiero autonomo.

Lo so.

Autonomo io? Mi faccio ridere.

 

Ma devo scansare la tentazione di iper-criticarmi, perché anche questo fa parte del repertorio, non serve massacrarmi…

E aspetto senza aspettarmi più niente, se mi passate il concetto…

E’ un aspettare diverso, un’attesa matura, se mi posso permettere questa parola…

E in questo modo, una bella mattina…

…proprio così… …in un’alba piena di sole,
-dopo un incubo dove non trovo via d’uscita-

…un piccolo sogno entusiasta…
…mi fa alzare di buonumore come non mi capitava da tanto, tantissimo tempo….

E dispenso regali, parole di considerazione, complimenti fini a se stessi e in ordine sparso, per il solo piacere di condividere, regalare, esprimermi.

Senza più nemmeno pensare al valore, al valere, all’io valgo. Quello vale di più di quell’altro. E così via, tarantella dopo tarantella.

Per poco, ovviamente.

Poi ritorno a sentirlo, il paragone.

 

Ma succede un’altra cosa strana-strana:

non lo agisco più…
Lo mando affanculo quel pensiero.
Ci sorrido. Lo prendo in giro: mi commisero.

Povero Metello… poverino lui…

Divento complice e fratello di quella voce, ma non costruisco più gli sbattimenti allo scopo di valere.

E mi sento finalmente come sono: fragile, sensibile, acciaccato, incapace di molte cose…

…ma anche creativo, idealista, pieno di entusiasmi…

Uh-uh, se sono entusiasta…

… a volte sono proprio cretino, infantile, spregiudicato e mi dico:

quante cose potresti fare, quante cose!…

Ma poi non ho fatto mai niente… perché per fare bisogna valere.

E io ho aspettato da sempre di sentirlo prima, di valere… e solo dopo… iniziare a fare cose…

 

E quindi non ho iniziato mai…

…certo, perché sono anche inconcludente, viziato, pigro e sognatore ad occhi aperti.

E sono anche un porco, colmo di pensieri che una volta avrei detto impuri.

Adesso lo vedo come sono.

E mi piaccio di più? Non so, non so più niente.

 

Ma mi sento diverso, finalmente mi sento me stesso.

 

Una merda, ma una merda di me.

 

Va beh, usciamo fuori. Alzo il telefono. 32 what’s app. Chi la cerca, questa merda?

Però è vero, così impresentabile… eppure… devo ammettere che un sacco di gente la cerca, negli ultimi tempi, questa merdina.

Proprio adesso che gliene frega niente…. zero meno di zero.

 

Fuori, il cielo è come se si aprisse.

 

 

 

 

 

 

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